«Sono una madre snaturata»
Chi sono le madri snaturate? Chi decide se una madre è una cattiva madre oppure un’ottima madre? Ma soprattutto: perchè dobbiamo essere madri? Chi ce lo impone? Chi lo decide? Non possiamo essere semplicemente degli esseri umani? Queste sono le prime domande che mi pongo, dopo aver visto The Lost Daughter di Maggie Gyllenhaal. Olivia Colman, Jessie Buckley, Dakota Johnson sembrano afferrare le mani degli spettatori per trascinare ognuno di noi in una stanza buia, con una piccola lampada che emana un po’ di luce in un angolo. Chiudono a chiave la porta e ci lasciano lì, intrappolate insieme a loro a guardare le vite di Leda e Nina che si intrecciano costantemente, continuamente, insistentemente.
The Lost Daughter: quelle madri snaturate, quelle donne semplicemente vere
Prima Elena Ferrante, poi Maggie Gyllenhaal. Due donne raccontano la storia di due donne che diventano madri molto presto. Quelle maternità che sembrano naturali, necessarie, vitali diventano delle gabbie dorate in cui l’unico desiderio è poterne uscire in qualche modo.
Leda è una giovane donna che sogna di studiare italiano, di diventare una professoressa. Vuole, con tutta se stessa, proseguire gli studi ma, nel frattempo, sta crescendo le sue figlie. E quelle bambine pretendono da lei ogni cosa, chiedono più di quanto lei possa dare. Risucchiano le sue energie, non le permettono di chiudere gli occhi nemmeno per un secondo. Leda deve essere costantemente presente. Non deve perdere mai l’attenzione. Ma Leda vuole davvero tutto questo? Vuole davvero essere il centro del mondo di due esserini così piccoli e pretenziosi? Se lo chiede, osserva la sua vita dall’alto e comprende che vorrebbe lasciare quella casa che la intrappola, smettere di ascoltare quelle continue richieste, quel continuo ‘Mamma, mamma, mamma’.
Ad un certo punto, smette di ascoltare quello che suo marito vuole da lei, quello che le sue due figlie vogliono da lei. Ascolta solo quei desideri che premono lungo la sua pancia per uscire fuori. Prende la giacca e si chiude la porta alle spalle. Leda va via, va alla ricerca di se stessa. Jessie Buckley dona alla sua giovane Leda tutta la frustrazione, la trappola della maternità, l’inganno del tempo che la spinge a pretendere qualcosa da se stessa, prima che si perda del tutto nei meandri delle persone che ha intorno. L’attrice dona sensibilità e spessore ad una donna che afferra la libertà e i desideri a lungo sotterrati nel corpo.
Poi, ritroviamo Leda come una donna matura: è cresciuta, non è più la stessa. Nei suoi occhi si intravede un essere umano consapevole ma anche tremendamente inquieto, perso, colmo di domande, di pensieri che vanno e vengono. Leda è diventata un essere umano che fa i conti con la madre che è stata in passato, con la donna che è diventata e con quella giovane donna che non è più. Un giorno, su una spiaggia, mentre è in vacanza, osserva ossessivamente Nina, una giovane e selvaggia madre e la sua bambina Elena.
In loro vede un legame intenso e viscerale che le ricorda quel legame pretenzioso che aveva con le sue bambine. Inizia per Leda un viaggio dentro e fuori i suoi sentimenti. Analizza i suoi ricordi, vive quei dolori che la attanagliano, si logora il cuore e cerca di capire cosa l’ha spinta ad essere quella madre snaturata che adesso ritiene di essere. Olivia Colman dona al suo personaggio tutta la sofferenza, la solitudine, la dispersione di un essere umano che si ritrova contro a quelle scelte che l’hanno cambiata, migliorata, peggiorata o semplicemente resa, finalmente, libera.
In questi ritratti di donne perdute, arriva Nina. Nina e la sua bellezza disarmante. Nina ed il suo silenzio. Nina e la sua maternità apparentemente avvolgente. Lo è, lo è davvero: una madre amorevole, presente, attenta, vittima sacrificale di una bambina che pretende così tanto dal suo corpo, dal suo volto, dalle sue mani. Ma questa donna è soltanto questo? Leda vede in Nina quella giovane donna che è stata. Nina vede in Leda quella donna matura, sola, indipendente che vorrebbe e potrebbe essere. Perché? Perché Nina è in trappola, legata ad una figlia, ad un marito, ad una famiglia che pretende da lei tutta la presenza possibile, tutta la disponibilità che ha in corpo. Ma Nina ha un corpo, una mente, un cuore, una parola, ha un mondo che ha bisogno di essere ascoltato, capito, lasciato libero di espandersi in modo infinito. Nessuno sembra ascoltarla, nessuno sembra fermarsi per darle spazio. Sarà davvero libera? Sarà davvero libera questa donna che ha sogni e desideri che la spingono, la fanno inciampare e cadere? Un giorno, un giorno, forse, anche lei sarà tutto quello che vorrà. Un giorno, anche lei afferrerà se stessa, prima che sia troppo tardi. Dakota Johnson è una Nina concreta, tangibile, più vera che mai. Realizza un lavoro minuzioso per un personaggio che reclama un tempo, un luogo, un sogno tutto suo.
Ti verrebbe voglia di salvarla Leda. Ti verrebbe voglia di salvare Nina. Ti verrebbe voglia di aiutarla a scappare via, vorresti prepararle le valigie e dirle: ”Vai via, ti accompagno io, lì da qualche parte”.
The Lost Daughter parla di tutte noi. Di noi esseri umani, di noi donne continuamente intrappolate in qualcosa. Sempre alla ricerca di una chiave che ci liberi dalle aspettative, dalle catene della vita, dai rumori del mondo e delle persone che abbiamo intorno. Parla di noi, di quelle donne sempre legate ad un figlio, ad un marito, ad un amore e mai legate a noi stesse, ai nostri sentimenti, alle nostre voci inascoltate. Poi, poi arriva un giorno in cui qualcosa scoppia, c’è un’eruzione fuori e dentro di noi. E no, non siamo più le stesse. Non lo saremo mai più.