Intervista a Federica Rosellini: «Il teatro insegna l’empatia. C’è necessità di comprensione umana»

Intervista a Federica Rosellini
© Masiar Pasquali

Hamlet di William Shakespeare prende forma e vita al Piccolo Teatro di Milano grazie all’attenta e preziosa regia di Antonio Latella. Ad interpretare il ruolo del tormentato principe di Danimarca, c’è Federica Rosellini. Con forza, coraggio ed incisività, l’attrice racconta e plasma la storia di un essere umano. E così l’Hamlet del XXI secolo vive ed agisce oltre la sessualità. La distinzione tra donna ed uomo è oltrepassata, con naturalezza. Da sempre, Federica Rosellini conosce e riconosce le storie che incontra, le racconta, donandogli corpo e voce. E poi, le attraversa, con naturalezza e precisione in un viaggio profondo attraverso gli abissi dell’anima.

Quando hai accettato di portare sul palcoscenico “Hamlet”, cosa ti ha affascinato maggiormente di questo progetto?

Ho trovato bellissimo il modo in cui ci siamo posti per raccontare questa storia. Non ci siamo posti la questione di genere. Abbiamo voluto raccontare un essere umano. Andiamo al di là delle distinzioni di genere. Nel mondo reale, stiamo lottando per tutto questo. Non sono una donna che recita in un ruolo maschile, ma un’attrice che interpreta un personaggio e prende su di sé le parole, che sono state attribuite ad un uomo. Come afferma Antonio Latella: “le parole non hanno sesso”. Credo che sia interessante vedere come un testo del genere abbia anche una forma di misoginia al suo interno. Mostriamo come quelle parole, spesso maschiliste, pronunciate da una donna, risultino con un’altra luce. Questo spettacolo è affascinante.

Antonio Latella ha dichiarato che “Hamlet” è uno spettacolo da ascoltare, più che da guardare. Cosa ne pensi?

In Hamlet, abbiamo lavorato sul potere della parola. Su un testo che rappresenta un paradigma, molto spesso, pensi di sapere delle cose perché ti sono state rimandate, le possiedi in una sorta di immaginario. Quando torni a leggere realmente quelle parole, ti rendi conto che il testo non sta dicendo esattamente ciò che immagini. Abbiamo creduto, per anni, di vedere determinate cose. Quando hai un pregiudizio ed un preconcetto, leggi le righe e le riporti. Bisogna liberarsi dai preconcetti. Per costruire Hamlet, abbiamo cercato di lavorare senza avere nessun tipo di pregiudizio sulla storia e sui caratteri dei personaggi. Le parole emergono realmente poiché ci siamo approcciati al testo come se non lo conoscessimo. La prima parte dello spettacolo è assolutamente da ascoltare. Poi, un po’ alla volta, il testo prende vita sulla scena. É interessante questa modalità di condivisione di un significato che, magari, a volte non abbiamo visto nel testo.

Che lavoro hai svolto per entrare all’interno di un personaggio come Amleto? Costruire un ruolo del genere, ti porta a fare un grande viaggio interiore. Che domande ti sei posta?

Sai, io non sono una di quelle attrici che si pone domande quando si avvicina ad un personaggio. Amleto é un’opera che rappresenta un mondo intero. In qualsiasi modo tu possa pensare di interpretare un personaggio, inevitabilmente, puoi svilire l’assoluto che é questa opera. Amleto racconta e racchiude un mondo. Il modo in cui ho deciso di entrare in questo personaggio é un modo umano. Ho cercato di attraversare le questioni poste da Amleto, le sue parole, interrogandomi sulla mia vita, sull’essere umano. Ho cercato di attraversare con la mia umanità quel personaggio, senza pensare di dover andare da qualche parte. Piuttosto, mi sono lasciata sprofondare.
Quando reciti, devi abbassare le difese, sempre. Non sempre accade. Non tutti gli attori lo fanno. Io tendo a farlo. Questo lavoro mi ha proprio chiesto di essere in grande condivisione. Mi ha chiesto di dare, di restituire alle parole, di rispecchiarle nel pubblico, di farmi attraversare e di donarle, in qualche modo. Quando ti ritrovi di fronte ad una grande opera come Amleto, ti ritrovi di fronte all’idea del fallimento, del fatto che difficilmente riuscirai veramente ad essere tutto quello che dici, ad esserci in ogni momento. Inevitabilmente, ci sarà una parte di fallimento e questa cosa, legata ai tempi che stiamo vivendo, mi è sembrata la fibra della mia possibile interpretazione.

Foto © Masiar Pasquali

É vero, è come se tu fossi un’equilibrista che fa di tutto per non cadere, no?

Sì e di tanto in tanto, magari cadrai in quel fallimento. Ci sono momenti in cui sei più vicina a quel fallimento e poi riemergi. Credo che tutto questo sia connaturato con la fibra di questo testo.

Siamo stati molto distanti, in questo tempo sospeso. Cosa significa, adesso, per te recitare sul palcoscenico, avere le persone intorno?

Essere sul palco, in questo momento, é un atto politico. Abbiamo avuto così paura degli altri esseri umani. Il contagio poteva avvenire anche dalle persone che amavamo. Gradualmente, abbiamo capito come affrontare le nostre paure. Siamo stati in ansia rispetto al contatto e alla vicinanza. In questo momento, é importante entrare in un luogo come il teatro e avere a che fare con altri esseri umani, condividere qualcosa che parla così profondamente alla nostra umanità. Amleto ci interroga così tanto sulle nostre fragilità, su cosa vuol dire essere uomini. E tutto questo rappresenta un dono.

Foto © Masiar Pasquali

Hai spesso dichiarato di voler “abitare” il teatro. Mi piace molto il verbo che hai utilizzato. Credo che ognuno di noi dovrebbe usarlo quando si parla di Arte.

Per me, il Teatro è casa. Ogni teatro in cui vado rappresenta casa mia. Avendo una vita da nomade, é bello trovare in ogni città una casa. Il Teatro è, per assurdo, il posto in cui mi sento più al sicuro. Sul palco sono esposta, é vero. Ma in quel luogo trovo qualcosa di onesto e sincero. Quale casa migliore dove abitare se non questa? Ho un rapporto speciale con il Teatro Studio perché era il teatro inglobato all’interno della scuola che ho frequentato, che era il Piccolo. Avevamo una porticina segreta per poter entrarci. É il teatro in cui ho fatto i miei saggi, in cui ho debuttato con I beati anni del castigo. Adesso, qui c’è Hamlet. Questo é un Teatro che amo molto perché ti abbraccia. La condivisione é ancora più possibile. Tu sei una piccola cosa, come è giusto che sia l’essere umano, in questo abbraccio tra sconosciuti.

Io e te ci siamo conosciute nel 2017, quando hai presentato da protagonista il film Dove cadono le ombre di Valentina Pedicini. Che ricordi hai di lei?

Valentina è stata uno degli incontri più importanti della mia vita. Era una grandissima artista. Abbiamo avuto troppe poche opere di Valentina. É un lutto non solo umano, ma anche un lutto per tutto quello che non potrà più darci. Spero che ci sia un’occasione per scoprire e riscoprire quello che ci ha lasciato. Poi, io penso sempre che noi portiamo la testimonianza delle persone che sono state importanti nella nostra vita e che abbiamo perso. Come sento di abitare i teatri, penso anche che le persone che abbiamo perso “abitano noi”.

Racconti gli esseri umani nella tua arte. Di cosa hanno bisogno le persone, secondo te?

Non credo che lo saprò mai. Quello che so, quello che mi ha insegnato il mio rapporto con gli esseri umani è che ciascuno di noi ha bisogno di comprensione. Quello che insegna il Teatro è l’empatia. Devi attraversare le vite degli altri, attraversi le vite dei personaggi che ti trovi ad interpretare. Attraversi le vite di chi viene a vederti, per una sera. C’è necessità di empatia, di comprensione umana, di non giudizio. Il Teatro insegna la mancanza di giudizio, qualcosa di così fondamentale per tutti noi.
Se c’è qualcosa che mi interessa è provare a guardare l’umano senza giudicarlo.

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